Ci sono sere in cui il mondo trattiene il respiro.
Momenti in cui neanche un alito di vento turba la quiete carica di aspettative, il tempo sembra sospendersi in una bolla pronta a scoppiare.
Tutto è calma prima di esplodere, tutto elettricità convulsa che si sparge sulla pelle e sui vestiti. Tutto un sussurro che non viene pronunciato.
Tutto è la parola che non dovresti dire.
Tutto è la parola che non vorresti dire.
Sul viale, le luci dei lampioni proiettano pallide ombre senza coerenza, opachi spettri giallastri sulle panchine, sui ciottoli della strada, sulle foglie morte e su quelle che cadono. Laggiù è solo eco di rumori senza nome, passi nell’oscurità, miagolii di gatti e uggiolii di cani, frullar d’ali e strepiti di cicale.
Gli alberi accudiscono la strada, la proteggono quasi, la avvolgono come uno scialle sulle spalle della notte, in fruscii di rami le parlano fino al mattino, la cullano.
Il cielo è plumbeo, senza stelle. Ogni tanto, pallida, si scorge una mezza luna triste, nuvole spesse, cariche di rancori viaggiano grevi. Odore di pioggia cattiva nell’aria.
Tra poco il vento si alzerà forte, spirerà e porterà con se mille nuovi rumori.
Portato da chissà dove, odore di fiume, odore grasso di acque malate, odore di ferro arrugginito, odore di gasolio, di vernici acriliche, di pesce morto, odore umido che si attacca alle mani, che ricopre la pelle come una pellicola bagnata e fredda.
Una mano.
Una mano disegna le cicatrici di un corteccia, tagli di coltelli, rughe senza tempo, si sofferma sul tronco, ne contorna i tratti con dolcezza, ne assapora la consistenza, la resistenza, la vita che lenta scorre sotto il cemento, la vita che pulsa in radici aggrappate alla terra.
Una mano cerca su quel volto senza occhi il suo cuore. Lo cerca sapendo di non trovarlo, di non poterlo trovare, cerca sapendo che non sa dove l’ha dimenticato, cerca senza pensare, senza memoria, come un gioco di bimba, senza senso.
Passi nella notte. In lontananza.
Il palmo aderisce completamente alla corteccia, quasi a volerla compenetrare, a fondersi con essa.
Gli occhi aspettano, immobili, senza paura, forse tristi, ma la pupilla copre quasi per intero l’azzurro, avida di luce.
Una fiamma nel buio. Improvvisa. E il rosso vivido di una sigaretta. Ad ogni tiro una bolla di luce rossastra illumina un volto immobile.
Qualche mese prima avrebbe avuto paura di quella oscurità, di quei passi, di ogni minimo rumore, oppure dell’assenza di ogni rumore, avrebbe avuto paura di essere lì, immersa tra quei rami e quelle foglie. Ora era vuota, cava, scavata, si sentiva come se non potesse più provare niente, come se non avrebbe mai più provato niente, come se tutta la sua vita non sarebbe più stata niente.
Era vuota, ma piena di odio.
Odio senza direzione, che lento e costante brucia le braci, che si spande inesorabile ma piano.
Odio per quelli che le hanno strappato il futuro.
Passi. Sempre più vicini.
Tutto stava per finire. Non dove era cominciato.
Sarebbe stato bello, romantico, se fosse stato lì. Ma lì non esisteva più, spazzato via, cenere, polvere.
Lì era stata una vecchia casa, odorosa di pini, sul fondo di una piccola valle. Lì era stato più che un luogo un tempo indefinito, un tempo dilatato, un avvicendarsi di emozioni e sentimenti, lì aveva avuto tutto il tempo del mondo per crescere e amare. Lì era dove aveva perso le bambole, le coperte ricamate, la foto della mamma, l’anellino di erba secca che gli aveva intrecciato, la tazza verde.
Lì ormai, non era più niente, solo campi bruciati e impronte profonde sulla terra.
E poi c’erano stati solo seminterrati, sacchi a pelo sporchi, sangue sulle mani che non andava più via. Non sapeva più da quanto tempo andava avanti e sapere che stava per finire le dava un senso di liberazione disperata, quasi un’esaltazione soffusa, un calore indistinto.
I passi laggiù sono vicini. Un passo strascicato e circospetto, incostante. Lo avrebbe riconosciuto ovunque, ormai.
La cenere cadde sulla gamba e in un ultimo guizzo di rosso si spense. La mano si staccò dall’albero e passò lenta sulla fronte, calò sul naso e si fermò sulle labbra fredde. Inspirò.
Eccolo.
Emerse dalla notte coperto da un giaccone verde strappato, le mani in tasca.
Si avvicinò a lei e le si sedette accanto.
Lei prese il pacchetto dalla tasca, tirò fuori una sigaretta, la accese col rumore raschiante di un fiammifero e fece una profonda boccata, fino a sentirsi bruciare i polmoni e poi gliela passò.
Lui in silenzio la prese e la strinse fra le labbra.
E rimasero così per un po’, seduti per terra, appoggiati allo stesso albero, senza parlarsi, a mala pena respirando.
-Abbiamo perso, sussurrò lui.
-Lo so
-Vai via
-No
-Se non scappi ora non potrai più farlo, sono già qui.
-No
-Ti prego vai via.
-No
-…
-…
Solo le nuvolette dei respiri si muovevano nell’aria immobile.
-Sono entrati nella base. Ci hanno uccisi tutti, io sono morto con loro. Ma tu sei viva, e devi andare. Lo capisci? C’è ancora speranza.
-Non esiste speranza. Abbiamo perso, lo sai. Mi troveranno, come hanno trovato tutti gli altri, non c’è posto in cui mi possa nascondere. E non voglio dargli il piacere di stanarmi. Li aspetto qui, con te.
-Vai via
-No
-…
-…
Il vento si sollevò. Prima accarezzò le foglie morte, poi sfiorò i rami e si insinuò fra i capelli dei due giovani. Lei lo aveva immaginato per tanto tempo quel momento, lo aveva sognato innumerevoli notti fredde, ma nei suoi pensieri quel vento doveva essere opprimente.
Invece era fresco e dolce, si sentiva l’odore della primavera. Quella notte avrebbe fatto l’ultima grande pioggia e poi sarebbe arrivato il sereno e quelle pioggerelline sottili e tiepide, a cielo terso. Sarebbero tornati gli arcobaleni e il cinguettio degli uccelli, i fiori. Non provò tristezza nel sapere che non li avrebbe mai più visti. Si sentì libera finalmente, in qualche modo in pace. Era nel posto dove era sempre voluta stare, in fondo. Non a tutti era stata concessa quella fortuna.
Un’altra scintilla e un altro sbuffo di colore e fumo.
- Si è salvato qualcuno?- chiese con voce leggermente stridula, come di specchi crepati, sull’orlo di infrangersi.
- No, nessuno. Hanno ucciso tutti, donne e bambini. Non hanno fatto prigionieri. Non sono stati crudeli però. E’ stato rapido. Alcuni sono stati uccisi nel sonno, non si sono accorti di nulla. Io sono arrivato quando tutto era finito. Ho chiuso tutti gli occhi che ho trovato spalancati. Non potevo seppellirli tutti. Li ho lasciati lì e sono venuto.
-Come è successo?
- Non lo so.
-…
-Tra le mani del Vecchio ho trovato questa.
Le passò un pezzo di carta sporco di sangue. Era coperto da una fitta scrittura precisa e nera.
“ Siamo tutti i silenzi che non possiamo avere, tutte le carezze che non possiamo dare, tutti gli sguardi che non possiamo trattenere. Siamo gli spazi tra le parole, l’attimo prima del respiro, il momento esatto in cui capiamo di non sognare più, l’istante prima di capire che ormai è troppo tardi. Siamo un niente pieno di occasioni mancate, un tumulto di acque, un sasso gettato nel lago.
Ma questo non conta, non ha mai contato. Ciò che conta è che a volte combattiamo per attimi di libertà, a volte smettiamo di avere paura, a volte sappiamo amare.”
-Triste…
-Si
-Il Vecchio aveva il dono di trovare la speranza nei posti più impensati. Mi mancherà.
-Mancherà anche a me, mi mancheranno tutti.
-Abbracciami. Vuoi?
-Si – disse lui.
E a vederla da lontano, non avresti visto tutto quel dolore, avresti visto solo due corpi abbracciati, appoggiati ad una corteccia umida, illuminati da un lampione pallido, immobili. E avresti pensato che se non si amano quelli, allora al mondo non si ama nessuno. Avresti pensato che in fondo c’è sempre un domani, che tutto si aggiusta prima o poi, che in qualche modo, anche se non lo capiamo, il mondo è un bel posto in cui stare. E saresti rimasto lì a berti tutta quella bellezza.
-Non ho paura
-Io si. Ma tu sei sempre stata più forte di me. Fin da bambini. Io piangevo appena cadevo per terra. E c’eri sempre tu che mi davi la mano e mi tiravi su…sai…è una cosa di te che ho sempre amato.
Hai un modo tutto tuo di sostenere le persone…
-E io invece ho sempre amato la tua sincerità. Non hai mai avuto paura di farti vedere debole. In questo è sempre stata la tua vera forza, anche in questi giorni tristi. Ci siamo riuniti intorno a te perché hai coraggio e forza, e onestà.
-Io…beh magari è il momento più stupido per dirtelo, ma insomma, avrei passato la vita con te, avrei voluto dei figli tuoi, coi tuoi occhi e il tuo sorriso. Avrei voluto tornare a casa la sera e trovarti lì, avrei voluto svegliarmi con te accanto tutte le mattine della mia vita. Avrei voluto…non lo so…avrei voluto e basta.
-E neanche un bacio in tutti questi anni?
E la risata argentina rimbalzò da ramo a ramo, da sasso a sasso, portata dai venti, fino a giungere ad orecchie attente, orecchie in agguato tra i tronchi scuri.
-No, neanche un bacio.
E un sorriso aleggiava sulle labbra tirate del ragazzo.
Tornò il silenzio e il vento ormai forte portava via i respiri.
Lo sentirono entrambi. Un suono ovattato. Di stivali sulla terra. Latrare di cani.
Si strinsero l’uno all’altra con violenza, a proteggersi a vicenda.
E in quel momento i loro sguardi si incrociarono.
In quei pochi istanti si amarono con tutta l’intensità di cui erano capaci.
Si amarono senza parole, senza sfiorarsi, bevendo uno gli occhi dell’altro, assaporando le mille parole non dette, le mille cose non fatte, i mille desideri mai espressi. Si amarono all’inverso, tornando indietro nel tempo, ricordando tutto, ricordando ogni momento, ogni sospiro, ogni passeggiata nei boschi, ogni fiume in cui si erano bagnati, ogni mela mangiata, ogni sorriso, ogni silenzio, ogni cosa.
Si amarono senza sentire il bisogno di far altro se non guardarsi, di tenersi avvinghiati ai loro sguardi.
E non smisero mai più.
Due spari.
Nella notte.
Frullare convulso di ali nere dalle cime degli alberi verso il cielo.
Il mondo riprende a respirare e lo fa con soffi di tuono, con lampi grevi, con rovesci di acque sporche.