L’intervista è tratta dal sito web Sfx.com e liberamente tradotta in italiano dallo staff di Neilgaimania
“Volevo scrivere qualcosa che non avevo mai scritto prima”, dice illuminato dal sole londinese. “Dopo
American Gods ho ricevute offerte frastornanti dalle case editrici circa la possibilità che io potessi lavorare per loro. Una delle più frastornanti mi ha anche spiegato che ci si aspetta che io scriva solo altri libri come
American Gods. Volevano offrirmi un mare di soldi per tre libri simili a quello. Se avessi accettato, avrebbero potuto chiedermi di fare le cose più orribili.”
Infatti anche se
I ragazzi di Anansi condivide un pezzo di DNA con American Gods – Mr. Nancy, il Dio africano dalle incredibili storie, appare in entrambi, il pensiero di Gaiman rivela che semplicemente ha preso in prestito il personaggio dal libro precedente – è una lettura molto differente piena di sentimento e di umorismo.
“Non scrivevo una commedia dai tempi di
Good Omens. In questi giorni ho incontrato molte persone che ridacchiando immaginano che io avessi scritto un libro molto serio e che Terry Pratchett ci mise dentro un po’ di umorismo... non so cosa sta succedendo! Terry Pratchett e Douglas Adams occupano insieme circa due terzi del territorio dei fumetti inglesi, io ho voluto trovare un modo di scrivere che leggendolo non sembrasse che io volessi fare come Douglas o Terry. Volevo qualcosa che fosse chiaramente una mia opera.”
I ragazzi di Anansi è il racconto di Ciccio Charlie, un giovane timido il cui mondo è turbato da due rivelazioni: la prima è che ha un fratello, Ragno, abile, sicuro di sé, che gli sta rubando la fidanzata; la seconda è che lui è figlio di un Dio.
“E’ veramente divertente. Il capitolo dove non lavora, è divertente come battere la testa contro un muro e osservare di che colore è il sangue. Ci sono quattro mesi di inferno tra il capitolo cinque e sei dove i personaggi che ho immaginato in scenari più o meno animati sono all’improvviso intrappolati al centro della scena senza che possano andare altrove”.
I fumetti di Gaiman frequentemente non sono proprio divertenti. I personaggi iniziano ad uccidersi nei modi più sorprendenti e perversi.
“Ho smesso di scrivere per quattro mesi e cercato di andare oltre le regole. Ci sono delle regole nell’horror e ci sono delle regole nell’humor e una delle regole dell’horror è che ognuno sa quello che sta per capitare loro e una delle regole dell’humor è che ognuno può ancora ottenere ciò che merita, anche se qualcuno di loro può morire orribilmente.”
“Ho avuto fiducia nel libro. La cosa che ho amato di più è stato il peso e il terrore che trasmette nell’ultimo terzo. Si capisce improvvisamente che si sta leggendo un libro in cui nessuno è fuori pericolo”.
E’ una voce fresca, ma indubbiamente Gaiman. Ci sono divinità perdute, miti, regni segreti nel sogno.
“Odierei stare sempre seduto a pensare, ‘Cosa dovrebbe fare Neil Gaiman?’ Ma più il tempo passa più diventa pesante. Sono stato pubblicato per 16, 17 (si corregge), 18 anni. Ed è una cosa orribile quando le persone cominciano a parlare sui temi della tua letteratura, e tu improvvisamente realizzi che la prossima volta che nella tua testa ci saranno idee con nuove forme sarai orgoglioso di te stesso per come queste sono differenti da qualsiasi cosa che tu abbia mai fatto prima.”
“Ci sono storie nel mio portatile che non sono come me. A volte ho delle meravigliose idee che non assomigliano proprio ad una storia di Gaiman e normalmente non so cosa fare con loro. C’è n’è una chiamata
Presidents’ Day, su dei cloni del presidente americano che scappano da Disneyland. E un’altra chiamata
Naked Shakespeare, in cui una spogliarellista appare in una rappresentazione di Shakespeare in una piccola cittadina americana dove è vietato lo spogliarello ma è consentito Shakespeare… Ci sono storie che mi piacerebbe raccontare qualche volta. Il problema è che c’è solamente un me. Ci sono approssimativamente sette giorni in una settimana. Più o meno 52 settimane in un anno. E questo numero non cambia.”
Gli ricordo una riga del suo blog online in cui racconta che stava combattendo per finire
I ragazzi di Anansi. Aveva scritto:
“Devo finirlo perché i miei personaggi dipendono da me”. Non vorrà lasciare i suoi personaggi a metà?
“Si! La cosa graziosa dei personaggi è che loro dipendono da te, aspettandoti, perché loro non possono muoversi nel tempo reale. Ci sono storie che non ho terminato, dove puoi vedere questi personaggi contare i passi, guardare gli orologi, fissare lo sguardo sui calendari, dicendo ‘Cazzo, sono passati sette anni da allora!’ Ma tu li lasci lì in eterno. Sono arrivato ad un punto in cui c’è abbastanza roba scritta da me sugli scaffali che se fossi colpito domani da una meteora non potrei provare ‘O mio Dio, quanto potenziale sprecato!’. No, non lo penserei: ho riempito tanti piccoli pezzetti di scaffale, è una figata! Attualmente questa è una piacevole posizione da ricoprire”.
Cercando su Google ‘Neil’, il primo risultato trovato è Gaiman. E’ famoso nel fantasy come una rock star, viaggiando intorno al mondo a firmare autografi ed accompagnato da una certa mistica spettralità. Costruisce miti da una vita. Viene da domandarsi se ha costruito il proprio mito personale.
“Non del tutto”, dice serenamente. “C’è stato un momento intorno al 2000 o il 2001, tre anni dopo
Sandman quando avrei voluto comparire in pubblico e il pubblico avrebbe potuto disapprovare perché si aspettavano qualche esaurito, alla Byron, tenebroso, meraviglioso essere, e invece avevano me. E loro avrebbero voluto parlare con me circa la meravigliosa tristezza dello scrivere ed io sarei stato molto interessato a parlare del mio mestiere. C’era una sorta di peso che traboccava dal mito di
Sandman. Ma io ricordo, quando avevo 15 anni – l’incontro con Michael Moorcock fu una cosa meravigliosa, ma ero anche un po’ dispiaciuto di non avere incontrato anche Jerry Cornelius o Elric. E stavo incontrando Michael Moorcock, che è un uomo e uno scrittore molto affascinante.”
Gaiman ha dato alla gente tante componenti iconiche, con ostinazione. Le sue ombre ubiquitarie, la penna stilografica e la giacca da motociclista... “E’ una sorta di evoluzione”, ride. “Non mi è mai interessato sedermi come Peter Parker e dire ‘Dovrei essere un ragno!’ Mi piacciono le giacche di pelle. Ho avuto per anni diverse giacche di pelle grigie e qualcuna marrone e poi un giorno ne comprai una nera e pensai ‘Oh! Mi piace. Questa è giusta.’ Ho comprato la mia prima t-shirt nera nel 1987. Ero nel World Com e avevo appena realizzato di non avere comprato abbastanza vestiti e così mi sono fermato in un piccolo negozietto e ho comprato una t-shirt nera con una stampa su cui erano scritte alcune parole.”
E gli occhiali neri? Puro accessorio da rockettaro?
“Ho degli occhi con delle pupille immense che non si contraggono abbastanza velocemente, il che significa che quando vado da un nuovo dentista o da un dottore loro cominciano a investigare sulla mia storia finché non stabiliscono questo, altrimenti immaginano che io sia completamente stonato. Ho solamente delle grandi pupille, così gli occhiali dalle lenti scure sono un grazioso, utile modo per andare in giro, altrimenti la luce mi darebbe molto fastidio.
E’ un insieme di cose”, dice scrollando le spalle, “Ma avendo detto questo sono consapevole che, nel momento in cui ho accumulato tutte queste cose, ho creato qualcosa di molto simile a una caricatura e questo significa, particolarmente alle convention, che le persone non hanno modo di sapere che cosa guardo. E mi piace questo, perché da sempre mi sono sentito a disagio con tutto ciò che è legato a l’essere famosi e lo sono ancora. Mi piace l’idea che c’è qualcosa che posso celare. Ricordo che Terry Pratchett era particolarmente impressionato da questo e che andava annunciando che sarebbe diventato un ‘cappello autore’ e che voleva essere Qualcuno nel Grande Cappello...”
Nel futuro di Gaiman c’è un racconto per bambini intitolato
The Graveyard Book (“pieno di sesso e violenza”, sorride) e una collaborazione con Zemeckis per il film
Beowulf. “So bene cosa non voglio fare ad Hollywood. So cosa non voglio fare nei libri. La mia soluzione
è che non faccio queste cose. Non mi sono ancora annoiato. E non sono al punto di dire ‘O mio dio, devo scrivere un libro’, o, ‘Merda, devo scrivere una sceneggiatura’. Adesso sono finanziariamente al punto che posso dire fottiti al mondo. Non devo dire si a qualcuno solo perché mi offre tanti soldi. Sono proprio fortunato”.