Lentamente, placata dalla brezza fresca, la rabbia ardente si spegne.
Nei bagliori scintillanti del metallo aveva perso la sua ragione, scivolata via come uno schizzo di sangue e urlata in aria a squarciagola, verso le nubi scure.
Ora la quiete scende con la sua foschia silenziosa e, tutto attorno, ode soltanto i gemiti sospirati dei moribondi. Nutre la sua anima con il miele di mille spiriti piangenti.
Come ogni volta ripulisce con cura la lama dell’ascia, prestando attenzione a rimuovere diligentemente ogni traccia porpora che si è fermata sul ferro.
Il rituale non occupa che pochi minuti ma il tempo sembra fermarsi, nella pianura immota.
Appena terminato l’ossequio all’arma, Vorlog rivolge l’attenzione all’ultimo dei caduti, pronto a onorare la disfatta dei molti avversari.
Con cura ne deterge lo sporco dal viso, indifferente alla crepa purpurea che la sua lama ha provocato nella parte alta del cranio. Rimuove ogni resto dello scontro con lo stesso panno che ha usato per pulire l’ascia: fa parte del rito.
Quando la pelle sembra sufficientemente netta, la mano di Vorlog corre lungo la cintura che tiene appesa al fianco, immediatamente le dita si stringono attorno all’elsa di un pugnale.
Il coltello non è mai stato usato in combattimento: la sua lama è per l’onore finale e non si sognerebbe mai di avvelenarla con l’ultimo gemito di un avversario.
Solo una volta quel pugnale ha sottratto il respiro di un uomo, quando accadrà di nuovo Vorlog riposerà il sonno del guerriero, un torpore che egli stesso si sarà imposto.
Poggia la punta sotto la palpebra sinistra del caduto e, come ogni volta, pensa a Rujin, il maestro, primo artefice del suo vigore e primo valoroso a soccombere alla sua nuova forza.
Con uno scatto spinge la lama verso il basso, affondando la carne e scalzando la piccola sfera di umore vitreo. Un rumore morbido accompagna il gesto.
Sulla scia di un movimento fluido ripete l’atto sull’occhio sinistro, lasciando il cadavere a guardare la morte con orbite rosse.
Per un istante sente il fugace tepore che i globi umidi trasmettono alla sua mano, poi porta il palmo alla bocca masticando con impegno l’intima essenza del nemico.
Sente sulla lingua il sapore dei monti che ha amato, il palato gode alla vista delle nudità della sua sposa, la gola si disseta con il salato di ogni lacrima.
Vorlog deglutisce l’umore sanguinante sentendo la propria coscienza che si ristora al pensiero di aver reso onore alla feroce battaglia.
I gemiti dei feriti si fanno fiochi, smorzati dai muti colpi della mazze di chi a vinto. Un silenzio giusto torna sul campo.
Il rituale è finito, la battaglia vinta, i caduti onorati.
Vorlog si toglie dalle labbra i resti del pasto e risciacqua la bocca con birra speziata.
Quando volta le spalle ha già smesso di pensare alla sua guerra, la mente rivolta ai festeggiamenti, al vino e alle fanciulle che allieteranno il suo giaciglio per tutta la notte.
Questi miraggi lo portano a sorridere con l’onestà di un cielo terso.