Come ogni sabato alle due e mezza andavo a casa del Lore e poi a prendere Mac, così cominciava il pomeriggio, sia d’inverno che d’estate non disdegnavamo scampagnate in bicicletta per Ertano, che, distruggendo il nostro presente ci rafforzava per un possibile futuro. Il vecchio Gregorio era stufo di vederci sempre a giocare abusivamente a tennis nel centro sportivo comunale, l’ultima volta che ci aveva scoperti aveva tagliato noi la via del cancello, costringendoci a scappare dalla piccola porta di ferro sporca e arrugginita; quindi quel sabato decidemmo di non disturbare le sue partite a briscola condite da bestemmie e andare a visitare il laghetto artificiale.
Era un maggio molto caldo, la festa di Beltane era terminata da qualche giorno, gli esami di maturità si avvicinavano per i miei due amici, quindi convincere Mac a uscire e mollare i libri fu molto complicato, non ricordo quante volte ho lodato il Lore per il suo modo di persuaderlo a mollare penne e quaderni ogni singola volta.
Quando anche Mac fu pronto e scese con il suo cappello ‘Ceres’ e la sua tracolla alla Indiana Stronz (così la chiamavamo) ci incamminammo verso il laghetto pedalando di lena, ci mettemmo pochi minuti ad arrivare, e, nonostante fosse quasi metà pomeriggio, non c’erano molti pescatori.
Entrando nel bar trovammo Lele seduto all’ombra sotto un ombrellone con una Beck’s in mano, indossava una maglietta senza maniche, che permetteva di vedere entrambe le sue braccia tatuate, il suo amico, di cui non ho mai conosciuto il nome era seduto vicino a lui con un cappello da cowboy nero e l’immancabile chitarra in mano; quando dicemmo a Lele che avevamo intenzione di prendere da bere si alzò bestemmiando tra i denti, quasi come se volesse maledirci per aver interrotto il suo far niente.
Ci mettemmo anche noi sotto il portico sulla panca di legno a bere, avevamo pedalato solo per qualche minuto eppure per via del caldo grondavamo di sudore, imprecando per non essere nati in Norvegia, ringraziando di non essere nati in Africa.
Dovevamo trovare un albero e sederci al di sotto di esso, prima dell’arrivo di altri pescatori, ciclisti, podisti e affini, ma il sole pulsava e all’ombra si stava come un irlandese sta in un pub, quindi andammo ancora a prendere da bere e quando di alzammo per trovare un posto all’ombra di un albero passò un’abbondante mezzora, e quasi tutti i posti erano stati occupati, ci eravamo complicati l’esistenza solo per la nostra voglia di ozio, ma si sa, nel genere umano questo ed altro..
Camminammo parecchio per trovare un quadrato libero. Alla fine il posto lo trovammo, ma quando mettemmo tutto in terra ci accorgemmo con dispiacere di avere ancora sete, tirammo a sorte con dei dadi chi dovesse di noi tre andare a prendere altre birre, il fato decise che sarebbe stato Mac a ripercorrere la distanza fino al bar, io mi misi ad ammirare il posto, dava poca visuale sul laghetto, quasi come volesse nasconderci a lui, mentre il verde abbondava parecchio; eravamo quasi all’inizio di un piccolo bosco e perfino il rumore dell’uomo si perdeva confrontato ai piccoli animali presenti e all’anima degli alberi che comunicavano alla Dea Madre la loro presenza; ammirando le cime scintillanti e il confine della realtà ormai cambiato capii che l’evoluzione si era fermata ai Celti e al culto della Dea Dana, retrocedendo con il passare dei secoli e delle croci fino ad arrivare al nucleare e al petrolio. Il mio pensiero venne interrotto da Mac che mi porse la sua tracolla chiedendomi di tenergliela, gli risposi con un ‘sì’ distratto, lanciando un’altra occhiata al bosco che sembrava contenere più vita di quello che appariva all’arcaico occhio umano, come se qualche creatura onirica mi stesse osservando con timore e curiosità.
Mi sdraiai sulla mia coperta, guardando il cielo, parlando con Lore del suo diploma e dei miei fallimenti, quando qualcosa attirò la mia attenzione, era un coniglio grigio con striature verticali bianche, molto piccolo, ed era ferito, pareva sulla zampa posteriore destra; l’animale fiutò l’aria e mi notò, mi alzai per vederlo meglio e lui scappò via, zoppicando dentro il bosco, abbandonai il Lore per andare a cercarlo, era svantaggiato, zoppo e lasciava del sangue dietro di sé, se non l’avessi trovato il prima possibile sarebbe morto dissanguato e soffrendo.
Entrai nel bosco, ed entrando capii che la realtà era ormai giunta alla fine, gli alberi sembravano aprire un varco e il leggero venticello sembrava spingermi nei meandri di quel bosco pieno di uno splendore primitivo. Dopo aver fatto tre passi sentii un rumore davanti a me, e da un cespuglio uscì il coniglio e si fermò a fissarmi, forse per schernirmi, forse per creare un legame invisibile tra me e lui; legame che fu interrotto quando il roditore ricominciò a correre seguito a ruota da me, percorsi parecchi metri, schivando con una strana naturalezza radici, cespugli e rialzamenti, fino a quando non scivolai accidentalmente su uno strato di muschio, nel cadere di faccia l’ultima cosa che vidi fu il coniglio continuare a percorrere il suo sentiero sparendo nell’oscurità.
Mi rialzai qualche secondo dopo guardandomi le spalle, l’uscita sembrava sbarrata dalla fitta flora, come se la natura stessa volesse farmi proseguire dritto, così assecondai essa e continuai il mio percorso, dubitando di rivedere il coniglio.
Le fronde scintillanti erano ormai un bel ricordo precedente, più si avanzava più la vegetazione si ammassava, cresceva e mostrava la propria superiorità, come quei soldati della Gallia Cisalpina, così forti e arditi da spaventare l’Impero Romano al punto di soprannominarli ‘Furor Gallico’;
non avevo ne un telefono ne un orologio, non potevo sapere l’ora ne tantomeno chiamare nessuno.
Macinai altri metri e la sete si fece sentire come un macigno molto pesante, ecco perché ora, quando mi concedo scampagnate nostalgiche la borraccia è la prima cosa che ricordo di legare allo zaino, la borraccia e un paio di Adelscott.
Fui a pochi minuti dal crollo quando qualcosa attirò la mia attenzione: una roccia cava con un sottopassaggio, soltanto nella più remota fantasia mi sarei aspettato una cosa simile; entrai esitando sperando di non trovare pipistrelli; dovetti proseguire gattonando, con molta cautela, oltre ad essere molto bassa, la caverna aveva una notevole pendenza verso il basso, quasi come volesse condurmi al cancello dell’Inferno, ma a mio parere ogni cosa non era successa per caso, la natura ha una propria volontà, di gran lunga superiore all’immaginazione umana, una volontà superba quando benigna, nonostante fossi un intruso non ne uscii ne ferito ne lacerato, la Terra conosce molto più di quello che sembra far credere, e noi siamo solo i suoi abitanti, niente di più.
La grotta giunse alla fine, me ne accorsi quando le mie mani toccarono l’umido e i miei occhi videro flebili luci alimentante con non so quale elemento, ma sotto c’era un’altra vita, oltre alle rocce e all’acqua c’era la terra, c’erano gli alberi... e quegli alberi avevano gli occhi. Ne ero sicuro, grandi occhi scavati che seguivano i miei passi e i miei movimenti, occhi quasi annoiati dalla mia inferiorità, io che non sono niente rispetto ai Signori della Terra; proseguivo tenendo lo sguardo degli alberi, ma dovetti distoglierlo quasi subito per vedere meglio dove camminavo, e i loro sguardi li sentivo ancora addosso a me, lo stesso sguardo annoiato di un saggio che ha davanti a se la più comune delle persone; nel seguire il giro degli alberi vidi quello che mi resterà impresso per sempre: il coniglio striato, era lui, ne ero certo, le sue striature e la sua dimensione ridotta mi indussero a capire che fosse lo stesso coniglio precedente, ma non era il coniglio ad avermi fatto stupire quanto la creatura che lo teneva tra le sue braccia: un Troll.
Dalla pelle marrone e verde, dal grosso naso, dai lunghissimi capelli, dagli occhi enormi e dai tre metri di altezza, quel Troll sembrava uscito da un quadro di Theodore Kittlens, ovvero non un Troll profanatore descritto dai miserabili racconti moderni (quello lo siamo noi umani) ma un Antico Guardiano, e quell’antico guardiano sussurrò qualcosa nell’orecchio del coniglio che a sua volta si trasformò in un Troll di mezzo metro con una profonda ferita alla gamba destra, il Troll più grosso disse qualcosa a uno degli alberi e quest’ultimo fece cadere sulla sua mano una foglia, che venne appoggiata sulla gamba del Troll più piccolo.
A lavoro concluso il Troll grande cominciò a guardarmi, i suoi occhi erano grandi e neri, stupiti quasi quanto i miei, dentro di essi vidi un’essenza millenaria, vidi il fuoco, l’acqua, vidi uomini tagliare alberi, vidi ruspe e pale meccaniche, poi vidi creature sconosciute nascoste dall’ombra e successivamente vidi il pentacolo della Dea Dana, e infine qualcosa che mi spaventò: vidi Andraste, dea celtica della guerra e Balor, dio della morte con un solo occhio, e come sottofondo vidi uomini di ogni religione e ogni etnia schiacciati da alberi secolari e da altri uomini con lunghi capelli e folte barbe, alcuni di loro indossavano pesanti armature, altri vesti sciamaniche; quest’ultima visione mi fece cadere per terra e interruppi il contatto con il Troll, anch’esso smise di guardarmi, passò da me a un cunicolo alle sue spalle, poi ancora a me e al cunicolo, rifece lo stesso giro con gli occhi per altre tre volte, quando capii procedetti molto lentamente verso il cunicolo, oltrepassando il Troll che non smetteva di fissarmi, fino a quando non entrai nel cunicolo e proseguii per la mia strada, andai avanti assolto nei miei pensieri accorgendomi solo verso la fine del percorso che il sentiero scompariva man mano che le oltrepassavo; poi vidi la luce e tornai con stupore nel bosco in cui ero precedentemente entrato, vedere la luce pesante del sole mi stordì, dovetti ripararmi gli occhi e tenerli chiusi per qualche secondo prima di tornare a riprendere la strada.
Fuori dal bosco c’erano Mac e Lore ad aspettarmi, visibilmente preoccupati, cominciarono a riempirmi di domande, dissi solo che a forza di correre mi ero talmente stancato da addormentarmi ai piedi di un piccolo albero e di aver perso il conto del tempo; restammo a parlare ancora una ventina di minuti poi ci accingemmo a tornare a casa per la cena, nel rimettere le coperte e le bottiglie vuote nello zaino diedi un’ultima occhiata al bosco, e la vidi il coniglio striato, che alzò le zampe in segno di saluto per poi tornare a rifugiarsi nell’oscurità della flora.
Non tornai più in quel bosco, non per paura, solo perché ero sicuro che se anche ci fossi ritornato non sarebbe successo niente, qualcosa mi diceva che non avrei mai più rivisto ne gli alberi scrutatori ne i due Troll.
Ho sempre tenuto per me questa storia, tranne qualche volta al pub, ma si sa, da ebbri la verità è spesso alterata e ogni singola parola si perde in un grande fiume di birra.